lunedì 5 febbraio 2018

Aspettando il quattro marzo/1

Vivo un periodo elettorale anomalo: per la prima volta dopo tredici anni di militanza potrò svolgere il ruolo di elettore consapevole, una capitis diminutio, almeno rispetto al frenetico andirivieni che mi ostinavo ad identificare come impegno. Bisognava preparare le liste per tempo, come prescriveva lo statuto del mio partito di allora, facendo attenzione inserirvi i nomi giusti, cioè quelli che avrebbero dovuto portare i voti, tanti ma non troppi da rischiare di scalzare, in caso di improbabile elezione, i candidati interni; poi la raccolta delle firme, la presentazione della lista e finalmente la campagna elettorale, attaccare manifesti che nessuno avrebbe visto, fare il giro dei paesi, presenziare a tutte le iniziative almeno per provare a riempire sale e piazze. Un occhio sempre rivolto ai sondaggi e l'ossessione del quorum da raggiungere. Poi arrivava il deludente dopo, che chiamavamo ampollosamente analisi del voto, in cui ritualmente ci chiedevamo dove avessimo sbagliato. Le risposte abbondavano sempre e mai nessuna mi convinceva, neppure quelle che potevo dare io. Seguivano defezioni di delusi e silurati, con annessi cambi di casacca. 
Questa volta è un pò diverso. Non ho più tessere di partito, non è bello ma cerco di fare di necessità virtù. 
Andrò a votare e non ho avuto mai la tentazione di non andarci; non voterò scheda bianca e non la farò annullare. Forse ha ragione chi pensa e dice che votare non serve a nulla. Magari è pure vero ma neppure il non farlo serve a qualcosa. In ogni caso io proprio non ci riesco a dirmi completamente deluso, ad ammettere che sono tutti uguali: sarebbe come alzare bandiera bianca e firmare la dichiarazione di resa incondizionata.
Voterò dunque, come ho sempre fatto, ma senza attendere né impartire ordini di scuderia. La solitudine politica ha almeno il vantaggio di conferire libertà e quindi responsabilità.


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